Ultimo appuntamento della stagione lirica 2023/2024 del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste con Il dittico “La porta divisoria/ Il castello del Duca Barbablù”.
Solo una porta. Una porta che divide due realtà: da una parte il salotto di una casa borghese, dall’altra una stanza. Padre (Alfonso Michele Ciulla), madre (Simone Van Seumeren) e figlia (Antonia Salzano) animano una realtà apparentemente perfetta. Il “mostro” sta dall’altra parte con gli spettatori. La scena agli occhi di chi guarda è oltre la porta, distante.
La voce di Gregorio (Davide Romeo), il figlio, che si trasforma in uno scarafaggio, giunge da dietro le spalle del pubblico in platea.
Il pubblico sta dove c’è Gregorio. Il pubblico diventa Gregorio. Quel “mostro” che rompe la normalità, la quotidianità della famiglia borghese, diventando un peso nello scorrere monotono del tempo di quello che dovrebbe essere il perfetto quadretto familiare, rafforzato anche dal gioco di luci (Eva Bruno) e dalla porta stessa che diventa cornice di quel ritratto.
Lui è diverso. Si sente messo in disparte, incompreso, abbandonato. Solo. Non può fare nulla. È dietro a quella porta che lo separa dai suoi cari.
La scenografia (Andrea Stanisci) minimalista e le luci vanno a creare un’atmosfera essenzialmente chirurgica. La porta centrale diventa il fulcro principale dello scorrere narrativo. Molteplici spunti riflessivi sorgono spontanei in un gioco concettuale che unisce più livelli: recitativo, musicale, visivo. Le urla di Gregorio sono anche le nostre. La scelta di dividere la scena fa sì che il pubblico diventi parte attiva dello spettacolo, sentendo ciò che prova Gregorio essendo “diverso” dagli altri. Un tema che continua ad essere attuale.
Una regia (Giorgio Bongiovanni) che orchestra con estrema precisione ogni tassello che va a formare un intreccio di assurdi preconcetti che soffocano chi non si ritrova a far parte della visione comune, portandolo alla morte.
Regia e scenografia… veramente stupende! “La porta divisoria” su libretto di Giorgio Strehler, commissionato da Victor de Sabata per La Scala di Milano e le musiche di Fiorenzo Carpi (eccetto l’ultimo quadro ultimato da Alessandro Solbiati), è un’opera che si ispira a “La metamorfosi” di Kafka ma nella quale ben si percepisce quel sentire strehleriano capace di smuovere le coscienze. Quell’impronta sperimentale della partitura prende forma nella direzione del M° Marco Angius che con l’Orchestra del Teatro Verdi contribuisce a restituire al pubblico le inquietudini dei personaggi, di quel mondo dalle tinte novecentesche.
“Ahi, storie segrete, dove, dove trovarle?”: Il bardo Maurizio Zacchigna traghetta il pubblico ne “Il castello del Duca Barbablù” con la particolare regia di Henning Brockhaus che riesce a caricare di passionale trasporto l’opera di Béla Bartók, libretto di Béla Balázs.
Una Judith (Isabel De Paoli) focosa che riempie la scena con la sua coinvolgente presenza, mentre Barbablù (Andrea Silvestrelli) diventa l’immagine di un amore distruttivo mosso da un’energia vorticosa. La scenografia (Brockhaus e Giancarlo Colis) e la coreografia (Valentina Escobar) esaltano sia la presenza soggiogante di Barbablù che il sentire di Judith che oscilla ad ogni apertura di porta. Sette porte. Sette mondi. Sette sensazioni.
Una fine quella di Judith che per certi aspetti si sposa con quella dello scarafaggio: la perdita della propria libertà per permettere agli altri di continuare la loro vita.
Impegnativo senz’altro imparare a memoria il libretto in ungherese. Complessivamente una buona esecuzione, ma personalmente, per quanto riguarda la pronuncia, mi aveva convinta di più quella della versione che avevo visto l’anno scorso al Mittelfest. Tra l’altro Giorgio Pressburger è tornato anche qui… La traduzione in italiano del libretto è sua!
Nyissad, Nyissad… Questo resta sempre in mente! 😁
P.S. Potete vedere il dittico ancora domani, domenica 23 giugno 2024.
Qui l’articolo della conferenza stampa del dittico: Presentazione Il Castello del Duca Babrbablù e La porta divisoria al Verdi di Trieste